Aumenta lo spreco, cresce l’insicurezza alimentare.
I significativi dati dell’indagine WWI: si ampliano le differenze fra fasce sociali e aumenta la percentuale di chi per mangiare intacca i propri risparmi.
di Luca Falasconi
Sembra un paradosso e a prima vista (o in una prima lettura) i dati che emergono dall’indagine WWI 2024 sembrano stridere tra loro: le famiglie a più basso reddito, pur percependosi molto più insicure delle altre dal punto di vista alimentare, sprecano più cibo. Aspetti che sembrano non poter stare assieme, ma ciò mette in evidenza come il contesto socio-economico possa influenzare significativamente sia lo spreco alimentare sia la percezione della propria (in)sicurezza alimentare.
Per comprendere questo fenomeno andiamo a condividere alcuni dati. Le famiglie che percepiscono di appartenere al ceto popolare (il più basso) sprecano il 17% in più (661,1 g a testa a settimana) rispetto alla media nazionale. Mentre le famiglie che percepiscono di appartenere al ceto medio-basso (il secondo più basso) sprecano il 7% in più (603,3 g a testa a settimana) rispetto alla media nazionale.
Venendo invece ai dati sulla (in)sicurezza alimentare l’indagine ci dice che il ceto popolare evidenzia una percezione della propria vulnerabilità di ben 280 volte superiore rispetto alla media nazionale. Per questo aspetto invece il ceto medio basso fa registrare un valore che è di poco superiore alla media (+2%). Lo scenario che i dati ci mostrano merita, senza ombra di dubbio, un’analisi che possiamo in primis ricondurre alla forte spinta inflattiva che è stata registrata nei mesi passati. I dati infatti fanno emergere come per fare fronte agli aumenti dei costi della vita il ceto popolare abbia scelto di fare numerose rinunce nelle proprio scelte alimentari; il 78% rinuncia a prodotti di marca (con contestuale aumento degli acquisti in discount), il 64% rinuncia ai prodotti biologici, il 58% attua una sorta di “economia di guerra” acquistando solo prodotti base come pane, pasta e latte e sempre il 58% taglia la spesa alimentare più della metà rispetto a quanto faceva di solito. Dati che fotografano la situazione sempre più critica della sicurezza alimentare in questo Paese soprattutto nel ceto popolare. Se poi a ciò aggiungiamo pure il fatto che ben il 77% del ceto popolare afferma di aver dovuto intaccare i propri risparmi o di essersi indebitato nell’ultimo anno per far fronte a questa situazione, diventa subito chiaro che quanto riportato nelle prime righe di questo pezzo ora non stride più e trova una sua chiara chiave di lettura.
Appare infine interessante soffermarsi su quanto emerge dalla percezione sempre in termini di (in)sicurezza alimentare ma guardando non il passato o il presente ma proiettandosi nei prossimi 12 mesi. Ciò che emerge è un ulteriore aggravamento delle disparità. Infatti, il ceto popolare è ancora una volta proiettato a subire l’impatto più significativo, con un aumento del 235% nell’insicurezza alimentare.
Interessante inoltre notare come sia le zone rurali che le periferie fanno registrare percentuali di insicurezza alimentare superiori (anche di tanto) rispetto alla media nazionale (+65% zone rurali; +10% periferie), in pratica laddove si produce il cibo o dove la produzione è fisicamente più vicina maggiore è l’insicurezza. Possiamo quindi affermare che anche in Italia il fenomeno dei food desert si sta palesando (ma di questo nel parleremo prossimamente).
In conclusione, i dati condivisi suggeriscono che le attuali disparità socioeconomiche e spaziali contribuiscano a modellare i comportamenti di consumo e di spreco e la percezione sulla propria (in)sicurezza alimentare. Ciò, quindi, evidenzia la necessità di interventi mirati per affrontare le specificità di ciascun contesto e garantire un accesso equo e sicuro al cibo per tutta la popolazione.