L’INTERVISTA – FRATE CAVALLI

Foto fra Giampaolo Cavalli

«Il tema vero è quello di fare in modo che nessuno abbia più bisogno di una mensa per i poveri».

Parla il direttore dell’Antoniano, frate Giampaolo Cavalli: «Bologna rimane una città accogliente, ma le situazioni fragili sono numerose e in aumento». L’importanza di conoscere la realtà e il ruolo della comunità.

di Gianni Gnudi

Vicentino di Arzignano, frate Giampaolo Cavalli guida da settembre 2016 l’Antoniano di Bologna, realtà poliedrica nota ai più per lo ‘Zecchino d’Oro’ ma fortemente radicata nel tessuto bolognese grazie alle attività della mensa sociale, aperta il 13 giugno 1954. Oltre 26mila giorni ininterrotti, senza una chiusura. Una realtà che sforna oltre 74mila pasti all’anno con quasi 2.500 utenti unici, persone che hanno fatto accesso almeno una volta alla mensa. Un contesto che fanno di frate Cavalli un testimone diretto del disagio e delle difficoltà di una miriade di persone che trovano nell’Antoniano un punto d’appoggio tutt’altro che irrilevante. Ecco la sua visione.

Frate Giampaolo, qual è la situazione attuale della povertà alimentare. Da otto anni è direttore all’Antoniano, un osservatorio ‘privilegiato’: cos’è cambiato?

Bologna è una città dove non si soffre la fame. Chi si trova in una situazione di disagio e ha bisogno di un sostegno alimentare può trovare un sostegno efficace. In questi otto anni, tuttavia la situazione è molto cambiata. Soprattutto dopo la pandemia il numero di persone che si rivolgono ai nostri servizi è aumentato sensibilmente. Come viene ricordato le cifre sono molto alte e si nota addirittura un raddoppio se confrontiamo i numeri dell’inizio del 2023 con i numeri di questi giorni. Le persone che vivono in strada, e i poveri in genere, sperimentano una situazione di precarietà che non permette loro di scegliere cosa mangiare e quando mangiare. Sono accompagnati da una necessità che da soli non possono soddisfare: mangiare. Recuperare il cibo diventa il tema fondamentale della routine giornaliera.

Bologna spesso viene citata come modello di accoglienza e città con molteplici realtà che si occupano del sostegno ai più deboli e fragili. È davvero così? Ma, soprattutto, così si può fare di più?

I portici di Bologna raccontano la storia di una città disegnata sull’accoglienza. Si racconta che i portici siano stati voluti dall’amministrazione cittadina per permettere alle tante persone di passaggio di trovare un riparo. Ancora oggi è così: a Bologna sono molte le associazioni e le iniziative che raccontano e fanno della città un luogo in grado di offrire adeguata accoglienza in tante situazioni. Tuttavia, le situazioni fragili sono numerose e sembrano in aumento. I numeri lo raccontano. Ma i numeri raccontano anche di una città dove i volontari ci sono, dove anche i giovani scelgono di fare volontariato anche in modo continuativo. Nel chiedersi cosa si possa fare di più credo che la responsabilità sia delle istituzioni che hanno la responsabilità di governo. Le risposte che nascono dall’associazionismo dovrebbero avere lo scopo di aprire strade possibili di presa in carico perché diventino percorsi strutturati all’interno della comunità. L’obiettivo non può essere quello di avere in città una mensa per i poveri che offra il pasto a tutti i bisognosi, questa rimane una risposta provvisoria, il tema vero è quello di fare in modo che nessuno più abbia bisogno di questo servizio. La mensa dovrà continuare a offrire il pasto a chi ne ha bisogno, ma dovrebbe restare il primo passo verso un affrancamento di chi vive in povertà.

I dati presentati a Roma il 16 settembre scorso dall’Osservatorio Waste Watcher – Campagna Spreco Zero (Università di Bologna) non sono incoraggianti: in un quadro in cui sono sempre più le persone vicine alla soglia di povertà, lo spreco alimentare è in forte ripresa. Come se lo spiega? Cos’è successo e cosa sta succedendo?

Ci sono anche le persone che alle volte si vedono rovistare nei cassonetti alla ricerca di qualcosa da mangiare. Forse la vita di corsa, il tempo che non abbiamo più ci fa perdere di vista la ricerca del miglior utilizzo del cibo.

Con i numeri rilevanti che gestite come affrontate lo spreco? Riuscite a utilizzare tutto quanto arriva in mensa? Avete soluzioni ‘intelligenti’ per non buttare via niente?

Il servizio della mensa viene sostenuto anche dall’utilizzo di beni che non possono essere venduti per diversi motivi e tuttavia sono ancora in un buono stato. L’utilizzo del cibo fino a quando può essere utilizzato avendo cura di evitare gli sprechi è una delle attenzioni più importanti della cucina della mensa. Questo è possibile per la cura della cucina che è in grado di selezionare e trattare il cibo in modo adeguato. La mensa vive soprattutto di donazioni, tra queste quelle del cibo sono molto importanti ed è una motivazione in più per cercare di evitare ogni spreco nella preparazione. Molte volte il cibo non viene consumato tutto, ma su questo tema si inseriscono altri tipi di riflessioni molte delle quali connesse alla fragilità che vive una persona che non ha i mezzi per avere a disposizione il cibo di cui ha bisogno per vivere.

Il Cardinale Zuppi, alla presentazione del libro “La spesa nel carrello degli altri. L’Italia e l’impoverimento alimentare” di A. Segrè e I. Pertot, ha sottolineato quanto sia necessario capire cosa mangiano i poveri e capire l’importanza del cibo, «perché nella condivisione siamo tutti saziati, non tutti affamati». E ha aggiunto: «c’è tanta sofferenza e i quasi sei milioni di italiani che vivono in povertà sono una cosa che ci deve scandalizzare. Dietro i numeri ci sono le persone. E la solitudine». Come direttore di una realtà importante come l’Antoniano cosa si potrebbe mettere in campo per, quanto meno, limitare questa sofferenza?

La parola chiave nella dichiarazione di don Matteo, dal mio punto di vista, è conoscere. Molte volte abbiamo delle convinzioni che si nutrono di luoghi comuni e di pregiudizi che non incontrano le persone che vivono in povertà e nascono da impressioni, molto spesso lontane. Molto spesso per chi vive in povertà e non ha la possibilità di gestire il proprio bisogno di cibo, procurarsi quanto necessario per mangiare diventa tema di sopravvivenza. Il cibo acquista valore in quanto posseduto e non perché necessario a saziare la fame. Diventa primario avere cibo, averne tanto, recuperarlo in ogni momento possibile. Questo significa che il pensiero di una gestione del cibo, di una dieta equilibrata, … non può trovare spazio nelle scelte di chi vive in queste situazioni. La via potrebbe essere quella di una comunità che si prende cura di chi vive situazione di disagio. Lo scoprirsi accompagnati e sostenuti permette di iniziare a sentirsi parte di una comunità che sceglie di non abbandonare nessuno, e che sa mettere a disposizione perché ognuna e ognuno possa avere una vita dignitosa.

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