L’INTERVISTA-RISSO

Enzo-Risso

«Serve una ridistribuzione del rischio economico della transizione ecologica»

Il direttore scientifico di Ipsos a 360 gradi: equilibri mondiali, prospettive future, politiche ambientali, disuguaglianze sociali. Forte sostegno alla campagna Spreco Zero.

di Gianni Gnudi

È una della più grandi società al mondo nel settore delle ricerche di mercato. Ipsos, istituto di sondaggi nato a Parigi nel 1975 e che dunque festeggia i 50 anni proprio nel 2025, da anni fotografa i mutamenti della società e i comportamenti dei consumatori. Anche in Italia, dove al vertice della direzione scientifica c’è Enzo Risso, osservatore attento dei fenomeni sociali sia come ‘guida’ di Ipsos, sia come professore alla Sapienza di Roma dove insegna Audience studies.

Professore, che anno sarà? Sul fronte internazionale nell’ultimo biennio si sono sgretolate certezze, sono cambiati gli equilibri e molte tendenze che apparivano consolidate si sono dissolte. Cosa possiamo aspettarci, anche a livello interno?

Il futuro, come diceva il sociologo Anthony Giddens, non lo possiamo prevedere, “ma possiamo generare scenari alternativi futuri e facendolo possiamo aiutare a dar forma al futuro”. A livello globale i più ottimisti sull’anno appena iniziato sono i cittadini dell’Indonesia (per il 90% il 2025 sarà migliore del 2024). Seguono colombiani (88), cinesi e filippini (87), peruviani (85), sudafricani e messicani (84). Gli italiani si collocano nella parte bassa della classifica con il 58% di ottimisti, insieme a tedeschi (56), belgi (51) e a francesi (50).

I principali killer del futuro sono molteplici, ma su tutti svetta il tema delle guerre (60%). Al secondo posto tra i killer del futuro ci sono i cambiamenti climatici (55), a dimostrazione della perdurante consapevolezza ambientale e del bisogno di agire in modo che le conseguenze siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla Terra.

Al terzo posto tra i nemici del futuro c’è l’eccessiva quantità di ricchezza in mano a pochi (36). Un dato estremamente significativo che porta alla luce l’accrescersi, nell’opinione pubblica, della coscienza che lo sviluppo delle fratture sociali non porta nulla di buono alla società, anzi che il capitalismo neoliberista sta generando disuguaglianze arbitrarie e insostenibili.

Se le preoccupazioni per guerre, cambiamenti climatici e disuguaglianze economiche mostrano la consapevolezza dell’opinione pubblica delle interconnessioni globali e dei rischi sistemici che questi tre fattori portano con sé; le aspirazioni a pace, sicurezza e giustizia sociale indicano la profondità del forte desiderio di stabilità e equità. La sfida per il 2025 e per gli anni a venire non si gioca solo sull’urgenza di mettere la parola fine alla follia delle guerre e dei massacri, sulla volontà di non frenare la lotta al clima, sull’impellenza di intervenire sulle disuguaglianze sociali, ma si gioca anche sulla volontà di riprendere il cammino interrotto verso l’idea, come diceva Bauman, di “creare un’umanità comune, pienamente inclusiva, in un pianeta che tutti condividiamo”.

Green, cautamente green, no green

La green economy europea ha ancora qualche possibilità o è destinata a essere abbandonata?

Il 32% degli italiani è un assertore convinto della strategia green e ritiene necessario attuarla subito e in modo completo. Il 49% degli italiani è, invece, cautamente green: questa fascia ritiene la transizione ecologica giusta, ma non applicabile a tutti i settori produttivi. Infine, il 19% degli italiani ha una posizione scettica sul green, la ritiene pericolosa per molte imprese (12%) o semplicemente una moda (7%). Il 43% degli italiani ritiene che le imprese debbano prima difendere i posti di lavoro e poi occuparsi della sostenibilità. Una quota che sale al 56% tra gli under 30, al 47% nei ceti popolari e al 49% nel Mezzogiorno. Il 43% degli italiani giudica ingiusto che i prodotti green costino di più degli altri. Una quota che lievita al 47% tra le donne e al 50% nei ceti popolari. Per il 56% dell’opinione pubblica (in aumento del 9% rispetto al 2023) i costi maggiori della produzione sostenibile dovrebbero essere a carico delle imprese, anche riducendo i loro utili. Il fenomeno di spinte e controspinte che coinvolge le politiche green con l’accentuarsi di forme di cautela verso la transizione green, in cui le aspirazioni ecologiche si scontrano con le realtà economiche e sociali, ricorda il “doppio movimento” di cui parla Karl Polanyi, in cui le forze del mercato e le esigenze di protezione sociale sono in costante tensione. Nel contesto dell’economia green, assistiamo a un “doppio movimento ecologico”, in cui la spinta verso la sostenibilità si confronta con la necessità di proteggere i mezzi di sussistenza e l’accessibilità economica. Questo doppio movimento evidenzia la sfida principale che ha l’economia green di fronte a sé: la necessità di sviluppare una strategia di ridistribuzione del rischio economico della transizione ecologica. L’aspettativa dell’opinione pubblica si concentra sull’esigenza che le aziende facciano la loro parte nella transizione ecologica, senza scaricare tutti i costi sui consumatori. In questo ambito rientra anche l’avversione per i costi maggiori dei prodotti green. Un processo di normalizzazione del green, in cui tutti i prodotti dovrebbero essere sostenibili e avere costi accessibili in sé senza richiedere ulteriori o eccessivi elementi di status o standard economici ai consumatori. Il tema non è abbandonare le politiche di transizione, ma migliorarle, renderle eque e accessibili, renderle parte di un fenomeno di giustizia e redistribuzione sociale.

Italiani anti-globalizzazione

Cambiano i rapporti commerciali, potrebbero consolidarsi corposi dazi: il consumatore come reagirà? Quale atteggiamento terrà sul food e sul no food? Ci saranno aggiustamenti impattanti sul sistema economico?

I dazi non sono una buona notizia per i consumatori e non solo per un ulteriore aumento del costo della vita e soprattutto dei prodotti. Per il 64% degli italiani la globalizzazione sta uccidendo la nostra economia. Per il 69% la globalizzazione distrugge le culture locali. Per il 69% del paese “Un tempo il mondo era un posto molto migliore”. Il 52% degli italiani (57% nel ceto medio) preferisce una società aperta e cosmopolita, mentre il 48% (58% nei ceti popolari) preferisce una società legata al locale. Negli anni d’oro dell’inizio della globalizzazione si era parlato di “disembedding”, ovvero di sradicamento delle relazioni sociali dai contesti locali. Un concetto che cercava di descrivere una delle caratteristiche fondamentali della modernità, in contrapposizione alle società tradizionali. Oggi siamo all’interno di un processo contrario, di “reembedding”, di ricontestualizzazione, di ri-ancoraggio delle relazioni sociali in contesti locali. L’introduzione di dazi si innesterebbe su questa dinamica e andrebbe a incidere anche su un altro fenomeno, l’infragilimento del ceto medio, l’aumento dei ceti popolari e del ceto medio basso decadente. Gli effetti possibili potrebbero essere da un lato una ulteriore contrazione dei consumi per i ceti popolari e medio bassi, dall’altra l’accentuarsi delle spinte al local, alla localizzazione dei prodotti.

Meno qualità, più spreco

Siamo a poche settimane dalla 12° Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare. Gli ultimi dati rapporto Waste Watcher International non sono positivi e segnalano una rinnovata tendenza all’aumento dello spreco. Dalla sua prospettiva come se lo spiega?

La diminuzione dello spreco alimentare, in questi anni, dal Covid passando per lo scatto inflattivo e l’aumento dei prezzi, è stato il frutto di un doppio processo combinato: da un lato l’aumento delle abitudini di mangiare a casa e di gestire i pasti in modo più oculato sospinto dall’esperienza pandemica, dall’altro il bisogno di tagliare i costi e quindi in primis gli sprechi indotto dall’aumento improvviso del costo della vita. Si trattava di due dinamiche di compressione, che costringevano le persone a fare i conti con una dimensione riflessiva e oculata dell’esistenza quotidiana. Ma come ogni compressione, vive una fase di de-compressione, di voglia di uscire, di fuga. Oggi l’aumento dello spreco è il frutto di questa dinamica e anche di un altro aspetto: per risparmiare le persone diminuiscono la qualità dei prodotti acquistati e questo genera paradossalmente nuovo spreco. Quindi l’aumento dello spreco a mio avviso è dovuto all’agire combinato di questi due fenomeni: perdita di qualità, specie nei prodotti alimentari, dei prodotti acquistati e voglia di leggerezza, ricerca di maggiore spensieratezza da parte delle persone per uscire dal senso di compressione di questi anni. Una voglia che spinge alla distrazione, a non pensare al cibo come risorsa da curare, al ritorno di una certa noncuranza verso il tema dello spreco.

Da molti anni collaborate con la campagna Spreco Zero. Che significato ha per Ipsos questa partnership e quali ulteriori iniziative si potrebbero attivare?

Per Ipsos è una partnership significativa, perché investe una complessità di temi che sono parte integrante dell’impegno per il futuro. Il tema coinvolge aspetti come ⁠la sostenibilità ambientale, la giustizia sociale e le dimensioni etiche del vivere (la lotta allo spreco può contribuire a una più equa distribuzione delle risorse alimentare). Il tema della lotta allo spreco parla di consapevolezza e educazione, promozione di stili di vita sostenibili ed educazione alimentare, ma anche di ⁠salute pubblica e ⁠innovazione sociale (sviluppo di reti di solidarietà e di nuove forme di economia circolare). Affrontare i temi dello spreco alimentare vuol dire partecipare a sviluppare la resilienza dei sistemi alimentari, come ad accrescere la sensibilità e la responsabilità delle aziende aziendale sviluppando conoscenza, coscienza e pratiche sostenibili. Vuol dire anche essere parte del dibattito pubblico e stimolarlo su questi temi per lo sviluppo di normative e nuove pratiche pubbliche, stimolando l’elaborazione di leggi e regolamenti più efficaci nella gestione delle risorse alimentari. Infine, l’impegno su questo tema significa essere protagonisti, anche se per una piccola parte, della crescita di quella cultura del rispetto (delle persone, della natura, del cibo, delle differenze e diversità, dell’esistenza umana) quanto mai indispensabile oggi.

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