L’editoriale di Andrea Segrè, Professore di Politica agraria internazionale Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Si è chiuso ieri, mercoledì 26 luglio, il vertice ONU sui sistemi agroalimentari: capi di stato, ministri, organizzazioni internazionali e non governative presenti al massimo livello nella sede della FAO. Già nelle dichiarazioni di apertura del segretario generale Guterres si è capito chi era il convitato di pietra della tre giorni romana: la Russia e l’uso del cibo – a partire dal grano, prodotto base di gran parte delle diete alimentari nel mondo – come arma di guerra e ricatto. Non è un caso che da oggi, 27 luglio, i capi di stato africani – il continente più colpito dagli effetti della guerra, del clima e della crisi economica pandemica – si ritrovino a San Pietroburgo per il vertice Russia-Africa.
Con il presidente russo Putin a distribuire le carte, anzi i piatti rispetto alle forniture di grano di cui la Russia stessa è un importante produttore: oltretutto, si badi bene, sarebbe gratis. Non si spiega altrimenti l’escalation degli attacchi russi nei depositi ucraini, che peraltro si aggiungono a mesi di interventi per diminuire il potenziale agricolo dell’Ucraina. Da notare poi che la Russia assieme alla Cina è molto attiva in Africa nel land grabbing (accaparramento di terre fertili per fini alimentari ed energetici) anche grazie alla milizia mercenaria Wagner. Un quadro a dir poco torbido, tanto da far pensare a una precisa strategia. C’è un precedente: l’holodomor al tempo di Stalin, quando agli inizi degli anni Trenta morirono di fame milioni di contadini ucraini contrari al processo di collettivizzazione forzata delle loro terre.
Dunque, tornando al vertice ONU, che fare? La comunità internazionale, pur nella sua massima espressione, non ha una risposta mentre la crisi alimentare globale è sempre più vicina. Al di là delle parole, ascoltare nelle variopinte sale della FAO, la verità è che non c’è uno strumento capace di impedire quanto sta succedendo: il grano è una merce come le altre.
Dunque è il mercato, in base alle sue dinamiche, che regola il prezzo e consente anche le speculazioni come se fosse normale. Diminuisce l’offerta, aumentano i prezzi, ovviamente anche per altre ragioni come l’incremento dei costi energetici. In queste dinamiche le prime ad essere colpite sono le fasce più vulnerabile della popolazione, sia nei paesi ricchi che in quelli meno più poveri. Invece non dovrebbe essere così, se è vero che il cibo è un bene essenziale: se non mangi non vivi, ma prima se ti manca il cibo ti rivolti o migri. Allora cosa si potrebbe o meglio dovrebbe fare a livello internazionale? Due “cose”. La prima azzerare lo spreco alimentare che da solo permetterebbe di nutrire metà della popolazione mondiale e abbasserebbe di oltre un terzo le emissioni nocive che alterano il clima. La seconda è dichiarare che una parte del cibo a livello globale, diciamo il 10% che equivale al numero di affamati nel mondo, è un bene comune. Cioè non entra nel mercato, ma viene riservato a chi ha bisogno e donato come quando si recuperano le eccedenze a fini caritativi. Ogni paese potrebbe, in base alle necessità e agli andamenti produttivi, riservare una parte degli alimenti prodotti in loco a questo scopo. Realizzare questi due obiettivi a livello globale è, sarebbe, assai meno complicato, tecnicamente, di quanto possa sembrare. Ci vorrebbe però una forte volontà politica. Perché l’Italia, che sostiene la sovranità alimentare (cibo locale) e la dieta mediterranea (caso esemplare di sostenibilità e salubrità), non si fa promotrice di questo percorso?