IL CIBO AL TEMPO DELLA GUERRA.
L’intervento del fondatore Spreco Zero Andrea Segrè, ordinario di Politica Agraria Internazionale all’Università di Bologna, ospitato nelle pagine Economia di Repubblica.it
Andrea Segrè
IL CIBO AL TEMPO DELLA GUERRA.
SCAFFALI VUOTI, AUTARCHIA AGRICOLA, SOVRANITA’ ALIMENTARE: COME USCIRE DALLA CRISI ALIMENTARE GLOBALE
Oggi siamo tutti (giustamente) preoccupati per quanto sta succedendo in Ucraina nel conflitto con la Russia. Gli eventi sono così potenti che ci siamo (quasi) scordati della pandemia. I cui effetti però, oltre a non essere finiti, hanno un impatto o meglio amplificano gli accadimenti legati al conflitto. Basti pensare alla ripresa e crescita economica che timidamente sembrava avere il segno giusto, quello positivo. Lo sconvolgimento è tale per cui più di qualcuno mette in secondo piano anche tutte le azioni dedicate all’ambiente e al contrasto del cambiamento climatico, che pure ci avevano tanto (pre)occupato alla fine del 2021. Pandemia e cambiamento climatico non esistono più, ora c’è solo la Russia e l’Ucraina e tutti gli annessi e connessi globali e locali, dall’energia al cibo.
Concentrandosi sulle questioni alimentari, a partire dagli accaparramenti nei nostri supermercati che peraltro molto ricordano le scene di un paio di anni fa alla vigilia del primo lockdown (qualche analogia ci sarà), vale la pena fare qualche puntualizzazione, partendo da un elemento anzi due che riguardano la storia e la politica sovietica che non tutti ricordano o sanno.
Anche all’epoca dell’URSS, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’Ucraina era un granaio. Per tenere legate le Repubbliche Stalin decise che la produzione di pane non si doveva fare dove veniva coltivato il grano (tenero), ma altrove: a Vladivostok, per dire un luogo molto lontano. Ciò serviva a creare interdipendenza all’interno dell’Impero Sovietico. Dal crollo dell’URSS l’interdipendenza è ovviamente finita e l’Ucraina, divenuta nel frattempo Stato sovrano – con le sue vicissitudini ricordando le Rivoluzioni Arancione (2004) e di Maidan (2014) – si è rivolta al più ricco Occidente assumendo un ruolo molto rilevante nell’export di materie prime agricole. Comunque va notato che neanche ai tempi dei Soviet si praticava l’autarchia.
Infatti, a proposito del crollo dell’URSS, esiste la seguente suggestiva teoria che ho elaborato assieme al collega Giorgio Gattei, riportandola in un saggio del 2002 (La biblioteca magica. Dialogo sulla fine del secolo all’alba del nuovo millennio, Franco Angeli), legata proprio al grano: “Nonostante la produzione dell’Ucraina, ai sovietici conveniva esportare materie prime energetiche. Sui mercati mondiali il grano costava molto meno rispetto al gas naturale. Dunque era molto più vantaggioso comprare cereali e vendere energia. I sovietici non erano affatto sprovveduti in materia di scambi internazionali e vantaggio comparato, del resto con i Paesi dell’Est esisteva una specie di comunità chiamata COMECON. Nel 1986, poco dopo l’insediamento di Gorbaciov, lo scoppio del reattore a Chernobyl fece saltare lo schema vantaggioso. I raccolti ucraini non erano più utilizzabili per il consumo interno, né si potevano esportare. Si dovette ricorrere a una dose supplementare di importazioni, naturalmente imprevista dal piano centrale. Fu il colpo di grazia di un sistema già allo stremo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, o per meglio dire, il chicco in meno che ha svuotato del tutto – nel giro di pochissimi anni – il silos” (pp. 24-25). Insomma il grano ha avuto un ruolo molto importante anche allora, e si capisce meglio perché oggi i russi bombardano le mietitrebbie.
In altre parole inquadrare con queste due brevi note il passato abbastanza recente, in fondo parliamo di un po’ più di trent’anni, ci aiuta a capire qualcosa del presente e di cosa ci aspetta in futuro. E magari anche a trovare delle soluzioni in attesa che la situazione migliori, cosa non del tutto scontata.
In effetti il solo dato che Ucraina e Russia assieme rappresentano una quota rilevante del mercato mondiale oltre che di grano anche di mais e fertilizzanti – assieme siamo attorno all’80% – la dice lunga sull’impatto che possono avere sulla produzione alimentare, sia vegetale che animale, a livello globale. E’ vero che l’Italia si preoccupa, giustamente, della dipendenza del 64% per il grano tenero (pane e biscotti), del 47% del mais e del 73% della soia che servono per l’alimentazione zootecnica, dunque per produrre carne. Ma che dire dell’Egitto, primo importatore mondiale di grano tenero, ricordando la Primavera Araba di dieci anni fa ovvero la rivolta del pane quando i prezzi dei cereali subirono un incremento neanche lontanamente paragonabile a quello attuale?
Questo è un punto di attenzione ancora poco valutato perché in queste condizioni ci sono molti paesi: secondo la FAO una cinquantina fra i quali l’Iran, ll Bangladesh, il Libano, la Libia che dipendono fortemente da Russia e Ucraina.
Ma se, tornando all’Italia, il costo delle materie prima agricole incide solo per il 10% del prezzo pagato dal consumatore al supermercato e il resto è costo dell’energia, trasporto, imballaggio già in forte incremento da mesi anche “grazie” ai blocchi causati dalla pandemia; e se le previsioni FAO di un incremento di oltre il 20% dell’indice dei prezzi delle materie prime agricole si dovessero dimostrare azzeccate, è ovvio che la situazione si aggraverebbe ulteriormente. A fronte oltretutto di un ulteriore impoverimento della popolazione, sia a livello italiano che mondiale, che avrebbe sempre minor accesso al cibo sempre più costoso.
Un circolo vizioso che quando parte, e in qualche modo è già iniziato, è molto difficile non solo invertire ma semplicemente arrestare: un bel problema.
Dunque che fare? Alcune azioni richiedono un po’ di tempo ma non lungo, altre si potrebbero mettere in pratica subito.
Tuttavia prima di passare alle azioni dobbiamo “smarcare” alcuni concetti, parole, fatti che ci hanno allontanato, nel tempo, dal trovare soluzioni sostenibili in campo agroalimentare, sia nazionale che internazionale. Questa emergenza è una buona occasione dire alcune cose politically uncorrect.
Partendo dal fatto che non siamo (ancora) in economia di guerra, bisogna essere chiari nel dire che il sovranismo alimentare e l’autarchia agricola non servono, anzi non esistono. L’Italia, per rimanere al nostro caso, non potrà mai essere autosufficiente a meno che non vogliamo tagliare il consumo di pasta, cosa di cui dubito, solo per fare un esempio evidente: importiamo il 44% di grano duro per fare la pasta che vorremmo anche vendere all’estero e non solo mangiare a casa nostra.
La psicosi che ci porta all’accaparramento di beni alimentari come se non ci fosse un domani alimenta solo speculazioni e sprechi: da una parte alcuni ricari sono oggettivamente ingiustificati, dall’altra domandiamoci cosa faremo dei 10 chili di farina stoccati nella nostra dispensa prima che i pacchi vengano colonizzati dalle farfalline.
Dobbiamo inoltre dire una volta per tutte che gli Ogm in agricoltura sono stati demonizzati per ragioni che avevano, e hanno, poco a che vedere con la salute. Sono piuttosto legati a interessi commerciali ed economici, soprattutto delle multinazionali. Ma dobbiamo essere altrettanto onesti nel dire che i cosiddetti “nuovi” Ogm ovvero le New Breeding Techniques (NBT), se mai daranno risultati ci vorrà del tempo per la loro effettiva realizzazione.
Ciò detto, la cosa che dovremmo fare è applicare letteralmente e senza tanti giri di parole, la definizione di sicurezza alimentare, nel senso di garantire a tutti una quantità e qualità di alimenti sufficiente e nutriente, come si legge (e basta) in tutti i siti delle Agenzie delle Nazioni Unite, non solo quello più noto della FAO.
Nel contesto attuale per ripristinare le condizioni basilari di sicurezza alimentare servono quattro semplici azioni, tanto per cominciare.
Primo ottimizzare la produzione in relazione a tutti i fattori (suolo, acqua, fertilizzanti, antiparassitari, energia…) e ai prodotti occupando tutta la superficie agricola disponibile con la maggiore biodiversità possibile. Basta cementificazione, inutile e costosa, e misure di politica agraria che pagano gli agricoltori per non coltivare. La Politica agricola comunitaria (PAC), che pure ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione dell’Europa, va rivista in questo senso. Del resto la ricerca agraria ha dimostrato come la produzione può essere sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico se tutti gli attori della filiera ottengono un’equa remunerazione dei fattori che impiegano a partire dal lavoro. Siamo ancora in tempo per le semini primaverili.
Secondo diversificare le fonti di approvvigionamento e sostituire i prodotti/ingredienti: un paio di esempi. Il mais può essere importato anche dalle Americhe, dove è Ogm, superando finalmente tutte le “fake” sui rischi per la salute. Così magari affronteremo anche tutti gli altri (veri) problemi legati a queste colture: dalla perdita di biodiversità ai monopoli sementieri. L’olio di semi introvabile può essere sostituito (anzi risostituito) con l’olio di palma se è vero che recenti studi hanno dimostrato che le ragioni per cui questo era pericoloso per la salute sono superate. Naturalmente andranno finalmente risolti i non piccoli problemi legati alla coltivazione della palma (deforestazione), la cui soluzione sembra comunque meno difficile di sedare un conflitto bellico.
Terzo contrastare la perdita di diversità degli alimenti che compongono la nostra dieta. Quante specie di cereali non mangiamo più? L’omogeneizzazione della produzione ha portato a una conseguente omogeneizzazione della dieta con una grande perdita in termini di salute. La dieta mediterranea, biodiversa per eccellenza, non è più praticata neppure in Italia, nonostante il riconoscimento come patrimonio Unesco. Una campagna di informazione dedicata all’educazione alimentare sarebbe utile, anche per il punto successivo.
Quarto risparmiare e non sprecare. Inutile accaparrarsi litri di olio di semi chili o farina e pasta, che poi sprecheremo non sapendo cosa farcene fra qualche mese. Lo spreco domestico in Italia vale 7 miliardi di euro nel 2022 (Waste Watcher Internationl/Campagna Spreco Zero. E questa cifra, quasi mezzo punto di Pil, è “solo” il valore economico dei beni che acquistiamo e poi non consumiamo. Dunque al netto del costo del capitale naturale (suolo, acqua, energia), economico (input come fertilizzanti, antiparassitari, carburanti…) e del costo economico ed ecologico dello smaltimento dei rifiuti.
Serve altro? No, il piatto è già servito. Aspettando che le istituzioni apparecchino la nostra tavola con le prime due azioni, la terza e la quarta dipendono molto da noi stessi. Cominciamo subito.