A cura di Clara Cicatiello, Gruppo Noise, Università della Tuscia
Spesso si è sentito dire – e si sente ancora dire – che nei supermercati si spreca moltissimo. Pensando all’ultima volta che siamo andati a fare la spesa, immaginiamo intere scatole di quello yogurt che noi stessi abbiamo scartato, preferendo quello che scadeva qualche giorno dopo, che finiscono nei cassonetti. Pensiamo con ribrezzo ai chili e chili di pane che abbiamo visto sullo scaffale alle 8 di sera, mentre cercavamo di corsa qualcosa per cena, e li immaginiamo, pochi minuti dopo, buttati via. E la frutta? E la verdura? Per averle sempre fresche ne andrà gettata via un bel po’, no?
Ovviamente, questa idea non è del tutto campata in aria. Effettivamente, nei supermercati c’è una gran quantità di prodotti che vengono ritirati dalla vendita e gettati via. Visti tutti insieme, sono certamente una montagna di cibo. Ma, considerati in proporzione alle altre montagne adiacenti – il cibo sprecato nelle altre fasi della filiera – si ridimensionano molto. Basti pensare che solo il 5% del cibo sprecato in Europa proviene dalla fase della distribuzione. Montagne di spreco molto più alte si generano nella fase di produzione e di consumo. Il primato della vetta più alta va di sicuro assegnato al nostro frigorifero di casa.
Tuttavia, l’esatta altitudine di queste montagne è per lo più ignota. In Italia, almeno, non è stata mai misurata con precisione. E allora, ci siamo chiesti, perché non fare una vera e propria misura dello spreco nei supermercati per capire davvero di quali cifre stiamo parlando? Di questo si occupa la linea di ricerca del progetto REDUCE dedicata al comparto retail. Tramite un accordo con una grande insegna distributiva italiana, stiamo raccogliendo dati su un campione di 16 punti vendita in Centro Italia, per verificare cosa e quanto viene buttato.
Solitamente, in un supermercato, quando un prodotto viene tolto dalla vendita – perché si sta avvicinando la data di scadenza o preferenza di consumo, la confezione è danneggiata etc. etc. – il personale lo “svalorizza”, passando il codice a barre sotto un lettore portatile. Nei punti vendita che stiamo studiando, è proprio l’elenco di queste “svalorizzazioni” la base dei nostri ragionamenti. Diciamolo subito, l’elenco non è mai esaustivo. Molti prodotti sfuggono a questa routine di registrazione e vengono gettati via senza essere registrati. In particolar modo, questo problema riguarda i prodotti venduti sfusi e quelli preparati dentro il punto vendita (il pane da panificio interno, le preparazioni di gastronomia etc.). Comunque, anche i dati delle svalorizzazioni danno informazioni interessanti. Guardando solo ai 3 ipermercati coinvolti nel nostro studio, cioè ai punti vendita più grandi, in media ognuno di loro svalorizza 43 tonnellate di cibo all’anno, circa 15 kg per ogni metro quadrato di esposizione. Si tratta soprattutto di frutta e verdura, prodotti della gastronomia e pane. Non sono numeri eccezionali, se paragonati al giro d’affari di questi negozi, ma si tratta comunque di quantità notevoli. Volendo estendere il ragionamento a tutti i 668 ipermercati italiani, possiamo stimare che si sprechino da 25 a 39 mila tonnellate di cibo ogni anno. Questo dato potrebbe aumentare fino al 40% in più se si considerano anche i prodotti che non compaiono nell’elenco delle svalorizzazioni.
La cosa più interessante è che oltre un terzo dei prodotti ritirati dalla vendita è ancora perfettamente commestibile. In uno degli ipermercati che abbiamo studiato, i prodotti venivano controllati prima di essere gettati per selezionare quelli ancora commestibili, poi donati a una associazione che si occupa di assistenza alimentare. Abbiamo quindi verificato che il 35% dei prodotti ritirati dalla vendita era in realtà ancora perfettamente utilizzabile. Si tratta, per lo più, di prodotti che scadono dopo qualche giorno, di pane del giorno rimasto invenduto, di prodotti con confezioni danneggiate, il cui contenuto è rimasto però intatto.
Questa è una caratteristica unica dello spreco alimentare generato nella distribuzione che, se da un lato lo rende certamente più odioso, perché molta parte del cibo che si butta è ancora buono, dall’altro lato apre anche a tante opportunità di riutilizzo di questi prodotti. Una fra tutte, la già citata redistribuzione a scopo sociale, a favore di associazioni del territorio che si occupano di assistenza a persone disagiate.